nel dibattito tra conservazione e sviluppo, smarrita la rappresentatività
nel dibattito tra conservazione e sviluppo, smarrita la rappresentatività
breve analisi di un’estinzione
Già prima della «nuova normalità», l’intera Europa è stata travolta dai fermenti di un «nuovo ambientalismo»: l’onda green ha sospinto movimenti ecologisti a diventare forza di governo in Francia, Irlanda, Austria e Finlandia, ma soprattutto in Germania, dove amministrano diversi land e sono considerati il primo partito del paese. In molte importanti città europee i sindaci sono diventati “verdi”, sostenuti nella transizione da alleanze molto trasversali.
In Italia no. Con motivazioni che hanno poco a che vedere con la sensibilità o lo scarso senso civico dell’opinione pubblica: secondo tutti i sondaggi d’opinione, la questione climatica e i temi ambientali sono in testa alle preoccupazioni degli italiani, spesso talvolta prima perfino della paura per la disoccupazione e per i problemi economici del paese. Su tutto, pesa la scarsa credibilità delle classi dirigenti verdi.
Una spinta arriverà prima o poi, come sempre dal basso, come è avvenuto sulla scena mondiale grazie all’attivismo del movimento che si è generato attorno alla giovanissima Greta Thunberg. Nel frattempo, proviamo ad avviare una riflessione.
tra conservare e preservare, meglio non sapere…
Una prima riflessione si potrebbe avviare attorno alla più profonda suddivisione fra differenti approcci concettuali dell’ambientalismo.
Secondo il filosofo americano Bryan G. Notton: “Alcuni ambientalisti, a volte chiamati conservazionisti, sottolineano il valore dei prodotti naturali come risorse per il consumo umano, insistendo che debbano essere usati saggiamente di modo che continuino a beneficiarne le generazioni future. I conservazionisti sembrano condividere l’atteggiamento dei difensori della crescita economica illimitata, differenziandosi solamente nella loro perseveranza a considerare il rapporto costi/benefici a lungo temine. Questo atteggiamento sembra differire radicalmente da un altro di questi gruppi, a volte chiamati preservazionisti, che difendono l’idea di separare gli ecosistemi dall’uso umano”.
Un ulteriore modo di definire questi temi, illuminante ed esplicito, si trova nella definizione riportata dall’Oxford Dictionary of Ecology: “Nell’uso scientifico moderno la conservazione comporta la gestione saggia della biosfera entro le restrizioni sociali ed economiche, la produzione di beni e servizi per gli uomini senza che si esaurisca la diversità degli ecosistemi naturali, apprezzando il naturale carattere dinamico dei sistemi biologici. Ciò contrasta con la preservazione che, si denota, protegge le specie e i paesaggi senza considerare il cambiamento naturale nei sistemi viventi e le necessità umane”.
Questa prima suddivisione non è certo sufficiente a spiegare la esasperata frammentarietà del movimento ecologista nel nostro Paese. Ma offre lo spunto per una considerazione: inserire la “questione ecologista” nell’agenda politica significa ragionare in termini di modelli sostenibili di sviluppo economico e – ancor più – implica un radicale cambiamento di mentalità sociale. Ciò rende necessaria un’attività di programmazione “labour intensive“, ovvero ad elevato contenuto di lavoro, intellettuale e di manodopera, orientata al lungo periodo: un’attività, questa, che non si può dire abbia contraddistinto il movimento ecologista di casa nostra, andato sempre rincorrendo le opportunità più che orientarsi ad una vera e propria azione di costruzione sociale, che avrebbe richiesto una lunga e complessa concertazione fra le parti in causa – economisti, amministratori, produttori, capitalisti, consumatori, scienziati, filosofi e gli ecologisti stessi – per approdare ad una visione comune del mondo in cui vivere. E, conseguentemente, ad un’agenda ampiamente condivisa e strutturalmente incardinata nei sistemi legislativi e capace di influire sulle manovre di governo del Paese.
un arcipelago con tutti i colori dell’arcobaleno
Tornano alla mente le parole di Alex Langer, padre nobile dell’ecologismo italiano e presidente dei Verdi europei: «Scontiamo un’alta litigiosità interna, tanta burocrazia da partitino e l’assenza di una leadership riconoscibile all’esterno». Era il 1993, quando l’opinione pubblica era fortemente orientata al cambiamento, ma l’unico risultato fu che i vari personalismi finirono per presentare alle elezioni europee due liste (Verdi e Verdi Arcobaleno), disperdendo un patrimonio di 1,3 milioni di voti che sarebbe valso il 6,2% e avrebbe consentito di avviare una nuova stagione ecologista. Invece si finì per alimentare un ceto politico che – con la maglietta green e le spillette con la bicicletta – di lì in avanti si sarebbe preoccupato solo di occupare, a scacchiera, gli assessorati all’ambiente dei comuni, delle province e delle regioni. Per non parlare delle poltrone dei parchi nazionali e ragionali, delle comunità montane e dei consigli di amministrazione delle municipalizzate, tra gestione dei rifiuti ed energia.
Una classe dirigente che è diventata lo specchio di una società civile suddivisa in una miriade di movimenti e associazioni con milioni di iscritti e migliaia di volontari all’opera: macchine organizzative potenti, in grado di realizzare una grande quantità di progetti, ma sempre divise nel momento di creare una piattaforma programmatica comune.
Rileggendo la storia del movimento ambientalista, l’estinzione dell’anomalo caso italiano è sempre stata nei fatti, essendo risultata incapace di generare visioni di futuro e traiettorie di lungo periodo. Anche perché, diciamolo, troppo spesso ha prevalso lo spirito militante rispetto all’approccio scientifico, che ha finito per produrre un sostanziale appiattimento ai partiti di sinistra più radicale.
sostenibilità dello sviluppo
L’ambientalismo ha così vissuto una lunga stagione di veti e di rifiuti. Divenuto il “movimento dei no“, “verde fuori e rosso dentro“, non ha trovato la forza di prendere le distanze dalle dottrine socioeconomiche del socialismo più di quanto fosse riuscito a distinguersi dal capitalismo consumistico del Novecento, senza generare una roadmap che ponesse al centro i limiti dello sviluppo.
Il nobilissimo volontariato ecologista, che raccoglieva fondi per salvare la foca monaca e impegnava le giornate a ciclostilare volantini nei sottoscala, non è riuscito a produrre una classe dirigente capace di andare oltre il compito di portavoce, mentre sarebbe stato necessario andare molto oltre le parole d’ordine ed offrire una visione di futuro incardinato sulla sostenibilità, fatto di buone pratiche, solidarietà sociale ed efficienza produttiva.
La maggior parte delle organizzazioni ecologiste ha continuato per decenni a suonare allarmi sempre più consunti dall’uso e dall’abuso: “Attenzione, se non facciamo questo e quest’altro avverrà una catastrofe”. Ma se trent’anni fa era giustificato dire: “Se non riduciamo le emissioni il clima peggiorerà e farà dei danni”, oggi che le immagini di alluvioni e siccità, tornado e uragani sono una presenza costante, si rende necessario un cambio di marcia. Un «nuovo ecologismo».
Nel 2015, a pochi mesi di distanza, sono stati pubblicati due documenti di straordinaria rilevanza epocale – l’Enciclica Laudato Si’ e l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite – che hanno definitivamente proclamato la fine di un tempo governato da modelli di sviluppo sbagliati. Se il primo potrebbe essere assunto a “manifesto” di valori per un nuovo ecologismo, la seconda indica – attraverso 17 obiettivi globali – anche la strada da seguire.
I punti condivisi da tutti, oggi, sono la protezione dell’ambiente, il rapporto con la natura e la lotta ai cambiamenti climatici. Su questi temi è necessaria una piattaforma è comune.
Poi esistono le differenze, riconducibili a storie diverse. In Germania, per esempio, la tecnologia 5G è vista come un passaggio ineludibile di una società sempre più digitale, mentre in Francia sono molto critici. In Finlandia, Svezia, Danimarca e Gran Bretagna il movimento ecologista è concentrato sugli effetti del cambiamento climatico, mentre in Olanda, Belgio, Austria e Lussemburgo le attenzioni principali sono orientate ai diritti civili. Nei Paesi dell’Europa affacciata sul Mediterraneo, oltre le questioni strettamente ambientali, si è molto concentrati sui temi delle disuguaglianze economiche e sociali, dell’emigrazione e dell’integrazione.
Perché non si dovrebbero accettare altrettanto facilmente le diversità tra sensibilità differenti – o tra regioni con orientamenti diversi – in Italia? In ogni caso, ormai siamo sempre all’interno del perimetro dell’Agenda per lo sviluppo sostenibile firmata dall’Onu.
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