Lasciare tutto e andare a vivere in un piccolo borgo: sembra facile…
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5 Luglio 2020
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L’emergenza Covid ha puntato i riflettori sui piccoli borghi dimenticati d’Italia, riportando in luce le opportunità che possono offrire dal punto di vista del “buon vivere” rispetto alle città, diventate luoghi di assenza e segregazione durante il lockdown imposto per la pandemia.
Non sono mancati gli appelli pubblici, rilanciati da personalità del calibro di Massimiliano Fuksas e Stefano Boeri, pronti a garantire che nei borghi si vive meglio, anche grazie all’ausilio delle tecnologie che ormai consentono di lavorare ovunque. Spesso però tali proclami rimangono sganciati dalla realtà dell’esistenza concreta: secondo una ricerca sul disagio insediativo – presentata nei giorni scorsi da Unioncamere in collaborazione con Legambiente – nel decennio tra il 1996 e il 2016 si sono registrati ben 1.650 paesi abbandonati al loro destino.
Piccole realtà silenziose e lontane dalle telecamere (se non accadono catastrofi)
La legge che avrebbe dovuto rilanciare le zone montane, la n. 97 del 1994, di fatto non è stata attuata. Il risultato? Ci sono ben altri 2.666 paesi in una situazione difficile dal punto di vista demografico ed economico.
Gli appelli non bastano più, perché i piccoli borghi sono lo scenario di vita quotidiana di una gran parte del territorio nazionale. Anche se giornalisti, scrittori, opinionisti e telecamere risiedono nelle grandi città, un quarto dell’intera superficie nazionale è rappresentata da centri con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, rappresentando il 69,7% del totale dei Comuni italiani. Piccole realtà silenziose che risalgono dal dimenticatoio soltanto in occasione di catastrofi, come il terremoto del 2016 nel Centro Italia o la recente emergenza sanitaria legata al COVID-19, o quando la politica decide di ricordarsi di loro, principalmente in occasione di progetti calati dall’alto che consentono di distribuire risorse pubbliche, canalizzandole con metodi spesso alieni all’identità territoriale.
Tra il 2009 e il 2016, il “fondo nazionale per la montagna” non è stato finanziato, mentre dal 2016 al 2018 è stato rimpinguato con 5 milioni di euro annui, ovvero circa 900 euro per ciascuno dei centri con meno di 5.000 abitanti. Analoga sorte per il “fondo integrativo per i comuni montani“, che negli anni scorsi ha potuto contare su una dotazione finanziaria di 5 milioni di euro.
Per non parlare della “legge sui piccoli comuni” del 2017, finora mai nemmeno presa in considerazione, alimentando numeri e circostanze che dimostrano come le politiche pubbliche abbiano destinato poco e nulla a questa parte importante del Paese.
Una buona opportunità è la “Strategia delle Aree interne“, varata nel 2012 dall’allora ministro Fabrizio Barca: 440 milioni di euro di fondi europei più 126 milioni di euro di fondi statali in fase attuativa per le 72 aree “povere di servizi e infrastrutture”. A quasi un decennio di distanza, molti centri di spesa stanno ancora facendo i conti con la burocrazia e con la scelta di cambiare il coordinatore.
Naturalmente va peggio al Sud, dove il “Fondo sviluppo e coesione” – il grande contenitore da oltre 60 miliardi per gli investimenti pubblici e il riequilibrio territoriale – dimostra una capacità di spesa documentata dal Sole 24 Ore in percentuali pari ad appena l’1,5% delle risorse programmate (492 milioni su 32,1 miliardi). Ci si ferma a poco meno del 2% per la sottosezione rappresentata dai Patti per lo Sviluppo (276,6 milioni su 14,3 miliardi programmati).
Ovviamente, le somme sono impegnate per infrastrutture, come se cantieri, asfalto e cemento fossero realmente in cima alle necessità delle comunità locali o la panacea di tutti i mali.
Nell’ambito della prossima programmazione europea 2021-2027 ci sarebbero in ballo per l’Italia circa tre miliardi di euro per finanziare il fondo europeo di sviluppo regionale. Un “tesoretto” che sicuramente farà gola alle diverse formazioni politiche ai vertici del Paese, che provocherà sicuramente altre voci autorevoli a spendersi per rilanciare il tema del riequilibrio delle aree interne, con la finalità di distribuire le ingenti risorse disponibili.
Ma in tutto questo quadro dominano la frammentazione e spesso il silenzio di piccole comunità lasciate al loro destino, con chi vive ogni giorno la quotidianità di un piccolo borgo che spesso non riesce a far sentire la propria voce al livello decisorio delle politiche pubbliche e rischia di rimanere fuori da ogni opportunità di sviluppo
Scegliere di vivere in un piccolo borgo è oggi un atto di coraggio (o di fede)
Si vive a misura d’uomo, ma l’altro lato della medaglia mostra disagi legati alla marginalità di servizi pubblici e sanitari, incapacità di intercettare opportunità economiche e di sviluppo istituzionale e sociale. Spesso nel silenzio dei paesi predomina la quiete del lasciar vivere, il conformismo dell’adeguarsi a un contesto sociale e produttivo sempre uguale a se stesso, facilitato dal naturale “effetto palcoscenico” garantito dai piccoli spazi, in cui nel poco emerge chi sgomita di più, chi urla più forte, chi è semplicemente il più furbo, rispetto all’inazione della maggioranza. Nemmeno il refrain dell’isola felice risulta valido: fenomeni illegali, atti di corruzione e associazioni a delinquere si verificano ovunque, anche nei piccoli borghi, facilitati dal silenzio di una zona grigia fatta di connivenza e di convenzioni sociali perverse.
Il male che lentamente uccide il futuro di gran parte d’Italia è la difficoltà di scorgere il dinamismo, la contaminazione culturale e l’innovazione sociale che permeano i centri maggiori, osservati da lontano, con il piccolo cannocchiale di un contesto culturale fossilizzato e spesso retrogrado. La geografia puntiforme dei piccoli borghi non favorisce la sintesi intorno a temi e problemi comuni, causando l’impossibilità di avere quella massa critica fondamentale per entrare nella scena del dibattito pubblico.
Valorizzare i talenti capaci di innovare il genio locale
La precondizione necessaria al “buon vivere” nei piccoli centri parte dalla consapevolezza del valore intrinseco dei luoghi, che sostiene anche nelle zone marginali la possibilità di ragionare di futuro.
Chi vive l’Italia che tanti considerano ancora “minore” deve riuscire ad immaginare un futuro diverso, ripartendo dalle potenzialità che si celano dentro i vicoli, tra le stradine bianche che conducono a borghi avvolti dal silenzio, nella fruizione di scorci naturali mozzafiato, nel degustare la ricetta tipica tramandata da generazioni, in un luogo difficile da trovare con il navigatore.
Per modificare un destino che appare segnato si devono attuare azioni di coordinamento dal basso, raccogliendo le voci, i desideri, le istanze, le idee dei cittadini dei piccoli comuni, perché non si può prescindere dall’aspetto essenziale dell’autodeterminazione delle comunità locali, modificando la naturale propensione al senso del ritorno, piuttosto che allo slancio in avanti.
Per l’insieme di questi motivi, durante il lockdown abbiamo disegnato le “piccole patrie“: per ripartire dalle esperienze di comunità e ritessere la trama dei luoghi che vanno morendo, sparendo o dimenticando la propria essenza.
Non è un progetto di sviluppo soltanto turistico ma volto a restituire centralità al ruolo delle comunità: servono comunità vive, concentrate nella risoluzione concreta delle criticità, capaci di liberarsi una volta per tutte dall’ipocrisia dell’assistenzialismo politico che si nutre di progetti astratti, calati dall’alto, preparati soltanto per intercettare fondi pubblici (che poi magari non si sanno nemmeno spendere o si spendono male).
La poesia è sempre necessaria, ma non è più sufficiente. Potrà accompagnare i sogni dei nostri figli e nipoti, ma non potrà guidare le loro mani nel disegnare il futuro.
Occorre piuttosto una rinnovata capacità di rileggere i motivi per cui sentirsi comunità, per aprirsi e diventare laboratori di innovazione sociale, di accoglienza e di ospitalità. Per sperimentare buone pratiche di mobilità attiva, dolce e sostenibile. Per creare modelli di economia circolare. Per ridare valore alla terra, al cibo, alla tradizione, alla memoria, attraverso modalità innovative, efficaci ed efficienti. Occorre lavorare, insieme, perché le infinite eccellenze che l’Italia produce all’ombra dei tanti campanili tornino ad essere protagoniste dell’economia e della società.
Senza retorica, senza appelli accorati, senza cedimenti alla propaganda della prossima prebenda.
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