Come avere più tempo per noi (fermando il multitasking)
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7 Luglio 2018
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Nel saggio Accelerazione e alienazione (Einaudi, 2015), il sociologo e politologo tedesco Hartmut Rosa sostiene che la nostra epoca è caratterizzata dall’accelerazione — tecnologica, dei mutamenti sociali, del ritmo di vita — che diventa una forza totalitaria che genera sofferenza, allontanando l’uomo da se stesso.
Schiavi del multitasking
«Il tempo è un tema sostanziale dell’individuo del terzo millennio. Negli ultimi anni ricevo molti più pazienti sotto pressione e stressati per quanto non riescono a fare», testimonia Alberto Pellai, medico, psicoterapeuta, ricercatore all’Università di Milano (città-modello, in espansione, ma dove parte degli abitanti, schiacciati dalla competizione e dalla mancanza di tempo libero, reale o percepita, faticano a godere delle opportunità offerte). «Una nuova variabile — spiega Pellai, autore tra l’altro, con Barbara Tamborini, de Il metodo famiglia felice (DeAgostini, 2018) — è la tecnologia. Siamo sempre raggiungibili e il multitasking, che ci ha resi capaci di aderire in contemporanea a più esperienze, ha però alimentato altrettante illusioni: l’onnipotenza, mentre in realtà consumiamo più energie; il prevalere della performance sull’autenticità. Così si perde il piacere della vita in una corsa pazzesca».
Tra le attuali direttive della psicoterapia, aggiunge, c’è «l’aiuto al paziente a trovare un equilibrio tra il devo e il voglio e a stare nel qui e ora, anziché farsi divorare dall’ansia di anticipare». L’invasione del tempo «privato», inoltre, coinvolge tutti. «Se prima si portava il proprio figlio a scuola — nota Pellai — e lo si affidava con fiducia all’insegnante, riservandosi alcune ore per se stessi, oggi si viene comunque raggiunti dalle chat dei genitori su WhatsApp e non si stacca mai». Oppure: «Le email di lavoro che ci portiamo fin nel letto la sera e che ci allontanano inesorabilmente dalla felicità». Quest’ultima, sottolinea Pellai, «è una delle sei emozioni primarie che abbiamo in dote dall’evoluzione. Le altre sono la sorpresa, la tristezza, la rabbia, la paura, il disgusto. Ma solo la felicità ha bisogno della relazione d’intimità, va sperimentata nei legami. Dobbiamo lasciarci il tempo per viverli».
Il ruolo della tecnologia
«Le tecnologie, di per sé neutre, potrebbero aiutarci a fare le cose più in fretta e a liberare il tempo — nota Mauro Bonazzi, docente di Storia della filosofia antica alla Statale di Milano e a Utrecht — mentre finiscono per occuparlo». Il tema è da porsi anche in vista dell’automazione cui stiamo andando incontro. Bonazzi lo inquadra in un percorso storico: «Oggi è radicata l’idea che sei in base a quello che fai, che sei definito dalla tua professione. È una deriva paradossale del Marxismo, che pure voleva rivalutare il lavoro. Pensiamo invece all’età di Aristotele: l’individuo rifuggiva il lavoro (che lasciava ahimé allo schiavo) e il tempo era dedicato a se stesso, all’otium creativo. Robot e intelligenze artificiali potrebbero aiutarci a recuperare, per tutti, l’otium: il tempo in cui, liberi finalmente dalle incombenze materiali, si può pensare a se stessi. Ma il processo va governato, perché nella società di oggi, votata all’efficienza, il tempo liberato rischia di essere subito riempito da altre attività, come lo stare su Facebook o in chat per paura di rimanere soli o fermi».
Sul tema riflette negli Stati Uniti Judy Wajcman, autrice di “Pressed for Time: The Acceleration of Life in Digital Capitalism” (University of Chicago Press, 2014), testo di riferimento per chi studia gli effetti della trasformazione digitale sull’uso del tempo e la sua percezione. Per questa sociologa del lavoro, una “tecno-femminista”, la pressione che avvertiamo per la mancanza di tempo non è da ricondurre tanto alla presenza dei device quanto all’uso che decidiamo di farne. «La questione — sostiene — non è individuale ma pubblica e collettiva. Alcune grandi aziende hanno messo a punto un sistema che blocca le email di lavoro nel weekend e le cancella automaticamente durante le vacanze. Queste scelte sono state possibili solo dove è stato promosso un confronto aperto con i lavoratori e i sindacati, come nelle tedesche Daimler e Volkswagen. Senza un’azione collettiva, è dura resistere alla richiesta di essere costantemente raggiungibili».
Comprare il tempo
Se dunque è chiaro che serve liberare il tempo ma che non possiamo riuscirci da soli, welfare e politiche aziendali sono decisivi. Da tre anni, nel reparto di Pronto Soccorso della Scuola di Medicina di Stanford, in California, i medici ricevono, in cambio delle ore di lavoro extra, servizi per la pulizia della casa, pasti pronti, lavanderia a domicilio. Il progetto è nato per evitare lo stress da lavoro, fino al burnout (l’esaurimento, il crollo). Ma, come scrive il numero dello scorso giugno di «Academic Medicine» (rivista dell’Associazione delle università mediche Usa), i partecipanti non solo ne hanno guadagnato in benessere ma, rispetto a chi non è stato coinvolto, hanno ricevuto più premi e «1,1 milioni di dollari di fondi in più per persona».
Alla base del progetto, c’è il presupposto che più dei soldi sia il tempo a determinare la felicità: Stanford non paga gli straordinari dei medici in denaro ma con servizi che liberino ore per se stessi. «Comprare tempo favorisce la felicità» è pure il titolo di uno studio congiunto di varie università internazionali (Harvard negli Stati Uniti, British Columbia in Canada, Maastricht e Vrije nei Paesi Bassi). La premessa è che «gli individui si sentono sempre più pressati per la mancanza di tempo». I ricercatori hanno svolto indagini sul campo tra America del Nord, Olanda e Danimarca da cui emerge che «è più soddisfatto chi spende per un servizio che gli faccia risparmiare tempo rispetto a chi acquista un bene materiale». E dunque incoraggiano azioni come assumere un collaboratore domestico o una baby-sitter.
Va precisato che il principio è applicabile solo a chi un impiego già ce l’ha ed è abbastanza pagato da potersi permettere servizi al posto dei soldi. Così come non è in discussione che, nell’ambito del lavoro, la prima emergenza da affrontare in un Paese come l’Italia sia la disoccupazione. Iniziare a ragionare in termini di «tempo liberato» può tuttavia essere utile. «Se sono le aziende a fornire i servizi — dice Ashley Whillans, prima firma dello studio, docente di Business Administration ad Harvard — non è detto che questo non aiuti pure i dipendenti più poveri, spesso con meno possibilità di avere una tata, residenti lontano dal lavoro, ancora più esposti alla scarsità del tempo».
Il lavoro, il welfare
Altro tema ancora aperto è la conciliazione lavoro-famiglia. «Si potrebbe pensare che, nella vita, la curva massima della felicità sia quando si è nel pieno e non si è ancora anziani, ma tra i 30 e i 50 anni non ci sono picchi», spiega Francesco Billari, demografo e prorettore della Bocconi. «In quella fase il lavoro fuori e dentro casa sono una doppia occupazione a tempo pieno. Sono gli anni dei bambini piccoli o dei genitori anziani, del mutuo, della carriera». La “liberazione” del tempo in questa fase, prosegue Billari, «ha ancora molto a che fare con la questione femminile, anche se i nuovi padri si stanno facendo promotori della condivisione delle responsabilità di cura. Tanto più aumenta la disponibilità di tempo di questi ultimi, tanto più risale il tasso di felicità delle lavoratrici madri. Lo si vede per ora con chiarezza nei paesi nordici dove si consente ai padri di fare i padri».
In economia la felicità assume la denominazione di «soddisfazione» e viene misurata sui diversi aspetti della vita, privata e lavorativa, e sulla tenuta negli anni. «Servono le politiche del lavoro» dice l’economista Conchita D’Ambrosio, ex bocconiana oggi professoressa all’Università del Lussemburgo. Anche se il rapporto tra le riforme e la soddisfazione degli individui non è scontato. Spiega D’Ambrosio: «Se in un tempo ridotto mi viene chiesto di svolgere la stessa quantità di lavoro, i benefici delle ore formalmente guadagnate vengono azzerati dallo stress. Quando invece non si tratta di un’accelerazione del ritmo, la soddisfazione sale e resta stabile negli anni. A differenza di quanto avviene, in genere, con gli aumenti di stipendio: dopo un certo numero di anni, in media quattro, la propria soddisfazione torna ai livelli-pre promozione».
Che il tempo liberato renda più felici del bonus in denaro ha trovato una conferma in recenti misurazioni su perdurare della soddisfazione per la propria vita nei lavoratori e lavoratrici dei Paesi europei che hanno introdotto la riduzione d’orario, Francia e Portogallo. Esperienze, in particolare quella francese, che hanno contribuito alla nascita dei nuovi modelli di smart working sempre più sperimentati dalle imprese in Italia, il primo Paese ad aver una regolamentazione in materia. Il lavoro organizzato sulla connessione, che non esige la costante presenza fisica, e ha l’ambizione di adattarsi ai ritmi dell’esistenza, è il volto felice della tecnologia: sembra promettere la coniugazione tra competitività (e significativi risparmi) delle stesse aziende e un certo grado di felicità di dipendenti e dirigenti (anche a questi ultimi lo smart working viene via via esteso per spingere dall’alto sul cambiamento culturale).
Il tutto resta da verificare perché, come conclude D’Ambrosio, «sul benessere gioca un’altra variabile: l’aspettativa. E anzi si potrebbe dire che il grado di soddisfazione è dato dal differenziale tra ciò che mi aspettavo e ciò che realizzo, anche e soprattutto in confronto con gli altri. Se io ho un buon stipendio e un buon orario di lavoro ma i miei colleghi pari grado guadagnano più di me, oppure hanno più tempo libero di me, io ne ricavo una percezione di minor soddisfazione, se non addirittura di infelicità».
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