Per una “politica dell’acqua”
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30 Luglio 2022
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Un abitante di Milano usa 275 litri di acqua al giorno, uno di Berlino 115. Ma in Italia investiamo 46euro per ciascuno, con la media europea di 82 euro per abitante all’anno. Se volessimo raggiungere la Germania dovremmo investire da subito 3miliardi e mezzo. Sta in queste cifre la grande sete perché la siccità ci mette alla prova, ma qualcosa si poteva fare. Non solo con le buone abitudini.
I Comuni stanno in questi giorni affrettandosi a redigere e pubblicare disposizioni per la limitazione del consumo acqua. C’è chi chiede di fare meno docce, chi di non utilizzare lo sciacquone e chi – meno creativamente – si concentra sugli utilizzi dell’acqua potabile proveniente dall’acquedotto per scopi diversi da quelli igienici e domestici, chiedendo di evitare l’innaffiamento di giardini, prati ed orti, il lavaggio di cortili e piazzali e garage, il lavaggio dei veicoli a motore o il riempimento di vasche da giardino, fontane ornamentali e simili.
Certo, responsabilizzare tutti i cittadini ad un uso più accorto e responsabile dell’acqua fornita dal pubblico acquedotto, invitando ad adottare ogni utile accorgimento finalizzato al risparmio ed alla limitazione del consumo di acqua potabile domestica è importante. La transizione ecologica, lo diciamo sempre, passa anche per un cambiamento delle abitudini. Ma nel caso dell’acqua occorrerebbe concentrarsi prioritariamente su altri obiettivi.
Spreco di acqua potabile: numeri da capogiro!
In Italia sprechiamo 104.000 litri di acqua al secondo. Basta fare un rapido calcolo per scoprire che si tratta di ben 9 miliardi di litri al giorno!
Lo spreco di acqua potabile è pari al 42% dell’acqua che scorre lungo i 500.000 km di rete di acquedotti. Non occorre essere esperti del settore per capire che si tratta di numeri preoccupanti.
Secondo alcuni recenti studi del CNR, 1/5 dell’intero territorio italiano è a rischio desertificazione (il 70% del territorio siciliano).
In molte aree del mondo la siccità è un problema sempre più pressante. E non riguarda “soltanto” la carenza di acqua potabile, ma anche l’assenza di servizi igienici. E il futuro non si preannuncia roseo. Nei prossimi decenni, a causa dei cambiamenti climatici in atto e per effetto del riscaldamento globale, vivremo fenomeni atmosferici e ambientali sempre più violenti, seguiti da lunghi periodi di siccità, con inevitabili conseguenze sull’agricoltura e sulla disponibilità d’acqua.
Cambiare rotta: ancora possibile?
Per invertire la rotta, il cambiamento deve coinvolgere tutti. SIMTUR aderisce dal 2020 alla campagna “Water footprint” e più volte, in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua e della pubblicazione del Rapporto Intergovernativo sui cambiamenti climatici, ha lanciato l’allarme e illustrato le modalità con cui ciascuno di noi può contribuire a ridurre lo spreco di acqua in casa.
Ma devono essere soprattutto governi e imprese ad intensificare il proprio impegno, con piani di sviluppo adeguati che puntino a ridurre lo spreco d’acqua e di energia.
Alcune delle misure previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza vanno nella direzione giusta: con un investimento di oltre 4,3 miliardi di euro si andrà nella direzione di migliorare la qualità dell’acqua, realizzare 25.000 chilometri di nuove reti per la distribuzione e completare le reti di fognatura, attraverso quattro misure di grande portata:
- 2 miliardi di euro per nuove infrastrutture idriche primarie (per esempio nuovi invasi) su tutto il territorio nazionale (l’istruttoria è in corso con l’intesa già acquisita da parte della Conferenza unificata);
- 900 milioni di euro per la riparazione, la digitalizzazione e il monitoraggio integrato delle reti idriche in modo da diminuire sostanzialmente le perdite di acqua (i primi bandi sono già partiti);
- oltre 800 milioni di euro per il potenziamento e l’ammodernamento del sistema irriguo nel settore agricolo (bandi in uscita entro fine anno);
- 600 milioni di euro in investimenti per la depurazione delle acque reflue da riutilizzarsi in agricoltura e manifattura (accordi in corso con le Regioni).
Ma cosa si potrebbe fare di più?
Occorrerebbe partire dagli ambiti produttivi nei quali le azioni darebbero i maggiori benefici, ovvero dai grandi consumatori di acqua dolce: agricoltura e industria.
L’agricoltura assorbe circa il 50% dell’acqua dolce prelevata dall’ambiente. Dunque, ogni iniziativa di adattamento e mitigazione non può prescindere da un ripensamento sulle colture nel nostro paese. Possiamo ancora permetterci varietà o colture a elevato fabbisogno di acqua? Se non vogliamo rinunciarvi, ci sono esperienze, come quella israeliana, che ci indicano una via maestra: il riuso dell’acqua depurata in agricoltura.
Il potenziale anche qui sarebbe elevato, ma in Italia c’è ancora molta diffidenza, dettata sia dal timore di come potrebbe essere accolta dal consumatore una scelta di questo tipo, sia dal fatto che l’acqua utilizzata in agricoltura è oggi prelevata dall’ambiente in modo spesso non regolamentato e, soprattutto, a costi nulli o irrisori (Arera nella sua relazione annuale ci ricorda che riutilizziamo solo il 4 per cento dell’acqua depurata), mentre un recente studio Enea ha misurato che con il riuso potremmo soddisfare fino al 70 per cento del fabbisogno di acqua in agricoltura di una regione come l’Emilia-Romagna, riducendo del 30 per cento i costi per i concimi.
Tra i principali ostacoli che si frappongono al riuso dell’acqua depurata vi è il basso costo dell’acqua prelevata dall’ambiente. Il riuso dell’acqua depurata necessita anche di reti per la distribuzione agli agricoltori. E dunque occorre chiarire se a pagarle debba essere chi utilizza l’acqua depurata (l’agricoltore) o chi, consumandola, l’aveva inquinata (i cittadini). Si dovrebbe dunque operare nella direzione di estendere il raggio di azione del servizio idrico, prevedendo l’obbligo da parte dei gestori di mettere a disposizione degli agricoltori l’acqua depurata per il riuso.
Un secondo grande capitolo riguarda la capacità di trattenere quanta più acqua possibile. Il cambiamento del clima vede precipitazioni più concentrate e copiose: occorre immagazzinare questa acqua per renderla disponibile nei mesi dell’anno in cui è più scarsa. Per questo da più parti si sottolinea la necessità di un piano per la realizzazione di nuovi invasi e dighe, che potrebbero assicurare anche la produzione di energia rinnovabile. C’è poi da interrogarsi sulla opportunità di dotarsi di impianti di desalinizzazione, energivori e dunque costosi, che però possono essere una soluzione per quei territori dove si concentrano picchi di domanda (per esempio per via del turismo) e l’acqua è scarsa.
Il terzo passo è allora ridurre il consumo di acqua anche nell’industria. L’introduzione di permessi negoziabili, titoli di efficienza idrica o “certificati blu”, potrebbe sostenere il percorso minimizzando i costi per il sistema industriale e assicurando al contempo obiettivi chiari di risparmio della risorsa.
Un quarto possibile intervento prioritario è intervenire sulle perdite degli acquedotti, che certamente sono poca cosa rispetto alla siccità, ma hanno il vantaggio di mettere in sicurezza la parte più sensibile: garantire la disponibilità di acqua potabile alle persone. Istat ci ricorda che dalle reti dei capoluoghi di provincia italiani si perde il 36 per cento dell’acqua immessa. Arera, che ha dati più completi perché riferiti all’80 per cento del paese, dice che la situazione è anche peggiore: le perdite idriche sono nella media nazionale del 41%. Sono diminuite negli ultimi anni quelle degli acquedotti, per gli indirizzi della regolazione e per l’incremento degli investimenti nel servizio idrico (più che triplicati nell’ultimo decennio). Ma di questo passo occorreranno ancora diversi lustri per riportarle sotto il 20 per cento.
Allora occorre un piano straordinario di riduzione delle perdite idriche, interconnessione e gestione più efficiente degli acquedotti (distrettualizzazione e digitalizzazione): far scendere dal 40 al 30% le perdite d’acqua in cinque anni è possibile, ed è peraltro coerente con gli obiettivi già indicati dalla regolazione Arera.
Si risparmierebbero circa 800 milioni di metri cubi di acqua potabile, l’equivalente del consumo annuo di 16 milioni di persone, cui si aggiungono risparmi per oltre cento milioni di euro di costi dell’energia (e dunque delle bollette dell’acqua) usata per potabilizzare e distribuire l’acqua che oggi si perde.
Infine il passo più difficile da compiere, quello decisivo per la transizione: ricordarci che se l’acqua dolce è scarsa e preziosa, il suo prezzo deve crescere e allinearsi al suo valore intrinseco e ciascun utilizzo deve pagare il costo marginale che la sua domanda aggiunge al sistema.
Lo sappiamo: in un momento in cui aumentano le bollette di luce e gas, pensare di veder aumentare anche le tariffe dell’acqua diventa un incubo: ma è inevitabile che il prezzo debba crescere per riflettere i costi di ripristino dell’ambiente e degli ecosistemi da cui viene prelevata, ma anche i mancati usi da cui viene distolta.
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