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Overtourism e biodiversità

Si chiamano “specie aliene”, ma sono dette anche “alloctone” o “esotiche”: sono specie sia animali che vegetali introdotte dall’uomo, volontariamente o involontariamente, in zone al di fuori del loro areale originario. La loro espansione può minacciare la biodiversità, causando profondi cambiamenti nei processi biologici, per esempio attraverso danni diretti alla salute o alle attività umane, ma può avere anche impatti socioeconomici positivi. Potrebbe esistere un parallelismo con gli effetti del turismo sulle comunità locali?

Storicamente, l’uomo ha sempre contribuito attivamente nella traslocazione di specie da una regione ad un’altra del Pianeta. Già nel I secolo d.C. avvenivano le prime introduzioni di animali esotici provenienti dall’Oriente: i romani importavano a scopo alimentare e ornamentale varie specie, allevandole e favorendone dunque la diffusione in natura. Tra queste, possiamo citare il daino, il fagiano e la carpa. Durante il Medioevo, grazie ai fiorenti scambi commerciali tra Oriente e Occidente, prima della scoperta delle Americhe, si verificava costantemente l’introduzione di nuove specie in Europa (tra queste, probabilmente, anche il ratto nero responsabile della peste, che sarebbe giunto nel continente trasportato passivamente dai mercantili).

Le specie aliene rappresentano una delle principali emergenze ambientali e sono considerate dalla comunità scientifica internazionale la seconda causa di perdita di biodiversità su scala globale, quando diventano “invasive” e arrecano danno ad altre specie o addirittura all’intero ambiente che colonizza. Il loro impatto è rilevante dal punto di vista ecologico e, in molti casi, causano anche effetti negativi sui servizi ecosistemici, sull’economia e sulla nostra salute. Bisogna però specificare che non tutte le specie alloctone sono dannose per quelle autoctone: in alcuni casi avviene un processo di naturalizzazione della specie introdotta, che non provoca alterazioni negative né sulle specie con cui convive né sull’ecosistema che la ospita.

Alcune scuole di pensiero invitano a ritenere che introdurre specie aliene significhi aumentare la biodiversità di una data area, generare ibridi magari più resistenti e quindi, tutto sommato, significa fare qualcosa di positivo per l’ambiente. L’introduzione di molte specie aliene per usi agricoli o per allevamento, ad esempio, ha avuto indiscutibili effetti positivi sulla qualità della vita dell’uomo. Sono molti gli esempi che si possono addurre cercando di spiegare che il
problema non sono tutte le specie aliene (ad esempio la patata e il pomodoro) e neppure quelle specie che vengono coltivate o allevate in ambienti confinati o comunque senza il rischio che vengano poi introdotte in natura.

Un ragionamento intrigante, che sposta l’attenzione dalla ricchezza di specie – che non può essere considerata come unico aspetto per misurare il valore della biodiversità – verso la qualità e il ruolo rivestito dalle specie. Inoltre spinge a considerare che possano esistere ecosistemi complessi, con spazi dedicati a ciascuna specie, senza che questo generi conflitti. Il tema di fondo, dunque, è affrontare la difficolta di avere informazioni sull’impatto di specie aliene: per valutare correttamente la loro invasività si rende necessario condurre studi a lungo termine, ricerche, analisi, monitoraggi e altri approfondimenti che richiedono risorse, strumenti e competenze.

E se l’alieno fosse il turista?

Non sfuggirà l’esistenza di numerosi parallelismi con il movimento delle persone: il “forestiero”, lo “straniero”, “l’immigrato” e il “migrante” hanno sempre causato momenti di crisi nelle comunità chiamate ad accoglierli. Così, in fondo, anche il “nomade”, il “viandante”, il “pellegrino”, “l’esule” e persino “l’ospite”, che rappresentano le figure dell’alterità: l’incontro, seppur talvolta sia vissuto correttamente nella chiave di una scoperta di ricchezza – culturale, sociologica, paesaggistica e anzitutto umana – altre volte rappresenta un percorso complesso di accettazione della diversità.

Il percorso di ogni incontro passa per il confronto e la conoscenza, che possono generare sentimenti positivi e/o negativi. Non diversamente la figura del turista, conduttore più o meno consapevole di un rapporto dinamico che incontra la cultura locale radicata da generazioni e propone nuove istanze: le sue esigenze nel medio-lungo periodo divengono trasformative dei luoghi e dei tessuti sociali, oltre che economici, con impatti difficilmente misurabili.

Nell’antichità il livello di civiltà di un popolo si riscontrava proprio dalla sua capacità di mostrarsi ospitale verso gli stranieri. I padri del popolo, specie Abramo e Giacobbe, furono migranti e il popolo eletto è per Dio un popolo di «forestieri e ospiti» (Lv 25,23). Poi nel Libro dell’Esodo, con l’apparire di un faraone che non aveva conosciuto Giuseppe, l’hospes («ospite») si trasforma in hostis («nemico») che, prima di indicare lo straniero con cui si ha un rapporto di belligeranza, a Roma indicava lo straniero i cui diritti erano equiparati a quelli dei cittadini romani (da hostīre, cioè «uguagliare», «contraccambiare»).

Una lunga storia che, nella seconda metà del Novecento, ha portato fino all’overtourism: il sovraffollamento turistico. Luoghi che tutti vogliono vedere perché sono “famosi”, grandi città d’arte o anche solo località celebri per alcune scene di film che improvvisamente attirano orde di turisti “mordi e fuggi”, che si soffermano giusto il tempo di un selfie e ripartono per la prossima tappa famosa. Un turismo di massa che è causa di inquinamento, di devastazione della natura e di disagio delle popolazioni locali.

I più colpiti dal “troppo turismo” sono gli abitanti del luogo. In tutta Europa, in città come Barcellona, Amster­dam e Venezia, il fenomeno ha scatenato forti tensioni da parte degli abitanti. I residenti reclamano l’aumento dei prezzi delle case e gli affitti introvabili, ma anche la scomparsa dei piccoli negozi e botteghe, sostituiti da shop turistici, il traffico, l’inquinamento e una sostanziale invivibilità degli spazi urbani. Conseguenza ultima di flussi eccessivi di visitatori è la fuga dei residenti dalle loro città, che sono diventati teatrini turistici, perdendo così la loro autenticità e bellezza.

Biodiversità come esperienza di comunità

In entrambi i casi, specie aliene e turisti possono rappresentare una minaccia e – contemporaneamente, a ben guardare – una straordinaria opportunità. Nel corso di un recente simposio internazionale, una dirigente della Commissione Europea ha avuto modo di esprimersi così: «Tutti vogliono i soldi dei turisti ma nessuno vuole organizzare la presenza turistica e prendersi cura dei servizi necessari a ridurre gli impatti negativi del turismo».

Ed è proprio questo il punto: per integrare l’offerta turistica occorre studiare, assumere impegni, condividere una visione e un set di strategie di destinazione che richiedono un’enorme mole di lavoro. E proprio come nel caso dell’invasione delle specie aliene si rende necessario condurre studi a lungo termine, ricerche, analisi, monitoraggi e altri approfondimenti che richiedono risorse, strumenti e competenze.
Come SIMTUR stiamo lavorando ad un documento di “sostenibilità del turismo“, con l’auspicio di riuscire anche in Italia ad andare oltre il concetto di “turismo sostenibile” (spesso confuso con l’ecoturismo, l’escursionismo, i cammini e le ciclovie) per suggerire un approccio sistemico e un cruscotto con alcune leve da utilizzare per consentire alle destinazioni di diventare competitive aumentando la propria sostenibilità ambientale, sociale ed economica.


Gli associati interessati a far parte del gruppo di lavoro non esitino a contattare la sede nazionale: vorremmo pubblicare il documento a giugno, in occasione di Rio+30, trentennale del primo Summit della Terra di Rio de Janeiro (1992).

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